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La tua filosofia progettuale mira a “rendere i videogiochi accessibili ad un pubblico più ampio”, come? Questione più di tecnica, di realizzazione o di contenuto, di storytelling?
L’idea è far competere sullo stesso piano i videogiochi con il cinema, la letteratura e la televisione nell’ambito dei consumi culturali – e quindi nella gestione del tempo libero – di un bacino di utenza che trascende fasce di età, livello di istruzione, sottoculture di riferimento. Questa sfida è nello stesso tempo causa ed effetto di un ampliamento dei temi e dei formati, che a sua volta ha ricadute sia sui metodi produttivi sia su quelli distributivi. Quanto dura un videogioco è determinato da quanto dipende dall’input dell’utente, che dipende dal grado di accessibilità, che è legata alla soglia di attenzione, che deriva dal grado di coinvolgimento, che è determinato dall’affinità col tema trattato e così via. Ho cercato di mettere queste relazioni a sistema tramite uno strumento di design, o manifesto, che si chiama Rejecta. In pratica, Rejecta è una collezione di design pattern che aiutano a scardinare gli elementi tradizionali della progettazione e produzione di videogiochi, quelli in pratica in grado di limitarne l’appeal per il pubblico che attualmente non ne consuma.